Dominion: ne parliamo prima che la quantità di espansioni divenga talmente ingestibile da stravolgere il concetto del gioco, invalidando ogni singola parola scritta a riguardo. Ma potrebbe essere tardi.
Il genio ha investito Donald Vaccarino come un camionista ubriaco investirebbe un pinguino sordo: senza ritegno.
L'idea è di una semplicità tale da far sembrare la ruota parte di un programma interstellare: comporre un mazzo di carte.
Soprattutto per chi ha giocato a Magic, o a qualsiasi altro gioco di carte collezionabile, questa sembrerà un'attività banale quanto fine a se stessa, ed è proprio così: le carte sono in tavola, 10 pile composte da 10 tipi di carte diverse (il set), più tre tagli di carte moneta e quattro tagli di carte punto. Dal proprio mazzo di carte iniziali (7 monete da 1 e tre punti da 1) si giocano 5 carte alla volta, acquistando quelle in tavola secondo i costi indicati (compresi altre monete e punti). Le carte comprate finiscono tra i propri scarti che vengono rimescolati una volta giocato tutto il proprio mazzo.
Il gioco procede a turni fintanto che non finiscano tre pile di quelle in tavola, o almeno la pila di punti di taglio maggiore, in quel momento il giocatore con più punti nel proprio mazzo (prendetela così) è il vincitore.
Se me l'avessero spiegato così forse non l'avrei nemmeno provato.
Invece se dopo le prime 20 partite non mi avessero portato a casa per un orecchio come una mamma recupererebbe il figlio dalla prima rissa, ora sarei stato ancora lì a cercare di menar le carte più forte degli altri.
Il segreto di questo successo deriva in gran parte dal principio Costanziano di Vaccarino: se va bene a me, buona partita a tutti.
Si vede, si sente, ad ogni combinazione di carte giocate si può quasi toccare il gusto, la perversione, di chi le ha pensate. Le speculazioni sulle strategie, sulla scelta di ogni singola carta acquistata, divengono tema di discussione in piena partita, e il tempo scorre come per i vecchi seduti al bar del paese, quelli che si parlano della briscola in maniera tale che i semplici umani sembrano non poter nemmeno vagamente intendere.
Allo stesso tempo però si vede tutto il limite di un gioco di carte: le combinazioni più gustose tendono ad essere tanto soddisfacenti quanto infruttuose, il legame tra i set di carte disponibili e le strategie applicabili è stretto come i boxer di quando andavo a scuola; e nonostante i 25 tipi di carte differenti il cerchio attorno alle variabili si chiude nel raggio di un lancio di scatola.
Appaiono così anche i limiti fisici del gioco: ci si ritrova a mischiare le carte così spesso da sembrare una comitiva di malati di parkinson in libera uscita, anche se di libero rimane ben poco, soprattutto alle prime partite. Da questo in cascata arrivano gli altri problemi: dalla scatola ben sezionata per contenere carte senza protezioni alle carte stesse che usate senza protezioni hanno un futuro prospero quanto una prostituta che faccia lo stesso.
Ma questo si perdona a un gioco circostanziale. Già, perché Dominion è un gioco psicologico ancor prima che matematico, e di fortuna fra i due. Le strategie adottate dai giocatori dipendono dalle carte che si vedono essere pescate per prime, dal lasciarsi condizionare da carte apparentemente buone ma inutili per l'obbiettivo prefissatosi, o semplicemente dal tiramento del momento. Come un Poker a carte scoperte giocato da quattro polli.
Il vizio mentale che divora il giocatore interviene anche e più nel momento in cui piuttosto che seguire i set consigliati, questi decide di formarne di propri, secondo i personali traumi riportati durante le precedenti partite.
Questo effetto dovrebbe svanire dopo le prime (40) partite, in caso contrario è probabile che già foste degli assidui di Munchkin, pertanto irrecuperabili.
Per gli altri invece c’è comprensione riguardo una zavorra importante del design: le carte punteggio sono esclusivamente tali, tanto utili per vincere quanto inutili per giocare, anche giocando oculatamente è piuttosto inevitabile che ingombrino la mano rendendo alcuni turni completamente ingiocabili, lasciando terminare le partite più tirate alla fortuna della pescata migliore. Un vero peccato, ludicamente parlando.
Altro tasto dolente è l’interattività, che fa timidamente capolino su qualche carta impattando sugli avversari con la violenza di un pedalino umido.
D’altro canto Dominion è un capostipite, e come tale non può che tracciare il sentiero lasciando evidentemente un solco di possibilità che sta ai seguaci colmare, cosa che al momento stanno facendo con egregia mediocrità.
A me non ha preso tantissimo neanche all'inizio. Certo, innovativo per l'epoca, e pure mi piace il deckbuilding. Però boh, m'è parso troppo poco interattivo per essere interessante.
RispondiEliminaAl contrario di Heroes of Graxia, che è tamente interattivo da non essere interessante.
"giocabile" è il meglio che possiamo offrire a Dominion, e comunque solo a tratti.
RispondiEliminaPer Heroes of Graxia non possiamo offrire nemmeno quello, ma non mi sento in colpa, visto quello che Heroes of Graxia può offrire a noi.